16/10/2017

L’infarto

Secondo un recentissimo studio presentato al trentacinquesimo Congresso nazionale della Società italiana di cardiologia invasiva, le donne hanno meno timore dell’infarto acuto rispetto agli uomini. Infatti, sottovalutano i primi sintomi e decidono di andare al Pronto soccorso più tardi di quanto non facciano i coetanei maschi. Invece, è essenziale imparare a riconoscere i segnali e recarsi immediatamente in ospedale. Ecco perché.

Di che cosa si tratta

Per infarto si intende la necrosi, ossia la morte, di una parte del miocardio, a causa di una mancanza di apporto di sangue ossigenato protratta nel tempo.

Alla base c’è una cardiopatia ischemica: una condizione in cui si verifica uno squilibrio tra la richiesta e l’apporto di sangue ossigenato al miocardio.

A sua volta, la cardiopatia ischemica dipende da una chiusura o un restringimento delle coronarie (le arterie che alimentano e ossigenano il cuore) a causa della formazione di una placca.

Le cause

La stenosi delle coronarie è determinata quasi sempre dall’aterosclerosi, cioè la forma più seria di arteriosclerosi.

L’aterosclerosi una malattia che interessa i grandi e medi vasi sanguigni, caratterizzata da un indurimento e un ispessimento delle loro pareti e dalla formazione al loro interno di una placca di colesterolo e altre sostanze di scarto (ateroma).

A sua volta, l’aterosclerosi deriva quasi sempre da un livello eccesivo di colesterolo Ldl, il cosiddetto “colesterolo cattivo” che, quando è in eccesso, tende a depositarsi e ad accumularsi sulla parete interna delle arterie, ostruendone il lume e ostacolando la circolazione.

Altri fattori di rischio sono: basso livello di colesterolo Hdl (quello “buono”), sedentarietà, diabete, fumo, dieta troppo ricca di grassi, pressione arteriosa elevata, obesità e sovrappeso.

I sintomi

In genere, causa un dolore molto intenso e prolungato al petto che può irradiarsi verso il centro della schiena, il collo, la mascella, lo stomaco o il braccio sinistro.

Spesso è accompagnato da nausea, vertigini, debolezza, accessi di sudorazione, difficoltà di respirazione, polso irregolare, stato d’angoscia, pallore del viso, senso di peso a livello toracico. A volte è presente anche bruciore al petto.

Frequentemente l’infarto miocardico viene confuso con un semplice problema digestivo, per cui può essere sottovalutato. Può anche succedere che si manifesti semplicemente con un formicolio alle dita della mano sinistra o con una sensazione di peso o di stanchezza al braccio sinistro.

Le cure

Il medico può decidere di trattare l’infarto con le cure farmacologiche oppure con l’intervento. Nel primo caso utilizza sempre quattro classi di farmaci:

narcotici e benzodiazepine, che controllano l’ansia e il dolore,

antiaggreganti piastrinici, che fluidificano il sangue e sono essenziali in caso di angioplastica con impianto di stent coronarici,

nitrati, che producono l’ossido di azoto, una sostanza capace di rilasciare la muscolatura dei vasi, dilatandoli, e di favorire così la circolazione nei tessuti colpiti.

Se il paziente è ad alto rischio (per esempio, perché è diabetico o iperteso) si possono aggiungere anche i betabloccanti, che riducono la frequenza cardiaca e permettono al cuore di stare parzialmente a riposo.

Nel caso in cui siano presenti seri disturbi del ritmo cardiaco si ricorre agli antiaritmici, che ripristinano la frequenza cardiaca.

Infine, quando è possibile, si libera la coronaria ostruita somministrando per via endovenosa farmaci trombolitici, in grado di disgregare il trombo.

Quando serve l’intervento

In molti casi le cure farmacologiche non bastano ed è necessario intervenire per disostruire l’arteria o le arterie ristrette. Il trattamento attualmente a disposizione prevede due metodiche: l’angioplastica e il bypass aortocoronarico.

– L’angioplastica

Si tratta di una procedura poco invasiva che prevede la dilatazione della coronaria e della placca che la ostruisce tramite un palloncino.

In pratica, in anestesia locale, attraverso l’arteria femorale della gamba oppure l’arteria radiale del braccio, s’inserisce un catetere e, sotto controllo radiografico, lo si sospinge fino alla coronaria malata. Il catetere, all’estremità, trasporta un palloncino che, una volta raggiunto il punto del restringimento, viene gonfiato tramite un apposito strumento. In questo modo riesce a schiacciare la placca sulle pareti del vaso: resta gonfio per circa 30-60 secondi, quindi viene sgonfiato e rimosso.

Durante la procedura, è possibile applicare nel lume del vaso un particolare supporto denominato stent, che consente di ridurre drasticamente il rischio di riocclusione. Si tratta di una sorta di retina a maglie molto strette che mantiene aperta l’arteria trattata, sorreggendone la struttura.

– Il bypass aortocoronarico

È un intervento cardiochirurgico che consiste nel creare una sorta di ponte con un altro vaso, in grado di scavalcare il tratto di coronaria chiuso, così da ripristinare l’afflusso di sangue e ossigeno al cuore. Si tratta di un’operazione molto più complessa e invasiva rispetto all’angioplastica.

Per prima cosa, in anestesia generale, si preleva il condotto arterioso o venoso da posizionare al di sotto dell’ostruzione della coronaria interessata. In genere, si utilizza un pezzetto della vena grande safena della gamba o dell’arteria mammaria destra o sinistra oppure dell’arteria radiale dell’avambraccio. A questo punto (nello stesso intervento) si procede con il bypass vero e proprio.

Innanzitutto, si effettua un’incisione longitudinale al centro della parete anteriore del torace, attraverso la quale si può accedere al cuore e alle coronarie.

Successivamente, mediante delle cannule inserite nei grossi vasi cardiaci, si collega la persona al circuito per la circolazione extracorporea, una macchina costituita da una pompa e da un ossigenatore che sostituiscono il cuore e i polmoni, momentaneamente inattivi.

Una cannula preleva il sangue venoso nell’atrio destro del cuore e lo invia alla macchina, dove viene drenato e ossigenato. Un’altra cannula pompa il sangue drenato e ossigenato direttamente nell’aorta, da dove viene sospinto in tutto il corpo.

A questo punto il cuore può essere fermato mediante l’infusione nelle coronarie di una speciale soluzione, chiamata cardioplegica.

Il chirurgo può quindi collegare un’estremità del condotto prelevato da altre parti del corpo all’aorta e l’altra estremità alla coronaria interessata, scavalcando la sua zona occlusa. Nel caso in cui si utilizzi l’arteria mammaria, non è necessario collegarla all’aorta perché la sua estremità è già naturalmente collegata al sistema arterioso. Terminato l’intervento, il sangue ossigenato ritorna all’interno delle coronarie e il cuore riprende la propria funzione. Infine, la circolazione extracorporea viene interrotta e l’incisione cutanea viene richiusa.

– Le alternative a cuore battente

Oggi è possibile operare anche a cuore battente. La procedura non cambia, se non per il fatto che il muscolo cardiaco non viene fermato e non si fa ricorso alla circolazione extracorporea.

Si impiega allora un sistema di stabilizzazione formato da un posizionatore cardiaco e da uno stabilizzatore tissutale. Il primo fornisce una guida e mantiene il cuore nella posizione ideale per arrivare alle arterie ostruite. Il secondo immobilizza una piccola area del cuore mentre il chirurgo opera e il resto dell’organo continua a battere normalmente.

Recentemente, sono state messe a punto anche procedure che permettono di intervenire in anestesia locale e senza necessità di aprire il torace. In pratica, in anestesia epidurale (nella schiena), il chirurgo effettua una piccola incisione sul torace, in modo da esporre l’apice cardiaco.

Quindi, isola l’arteria mammaria interna e la collega direttamente sulla parete della coronaria, al di sotto dell’ostruzione. Infine, sutura il piccolo taglio. Queste tecniche però sono riservate solo a casi selezionati.