21/08/2019

Neuroestetica, l’arte fa bene all’umore

Veronica Colella Pubblicato il 21/08/2019 Aggiornato il 21/08/2019

Memoria, capacità di apprendimento, concentrazione: l'arte è un vero allenamento per il cervello

neuroestetica

L’arte fa bene all’umore e ci permette di esprimere le nostre emozioni, ma è anche un allenamento insostituibile per la mente. Secondo le neuroscienze, il suo ruolo è a dir poco fondamentale per la nostra stessa comprensione del mondo: attraverso l’arte il cervello impara a costruire connessioni sempre più articolate, che affinano le capacità di astrazione e interpretazione.

Può bastare un accostamento di colori e di forme per suscitare un’emozione intensa, un ricordo

Alla ricerca delle corde dell’anima

Il padre della neuroestetica, il neurobiologo Semir Zeki, ha dimostrato che l’intuizione del pittore Vasilij Kandinskij – secondo cui “l’Anima è un pianoforte con molte corde e l’artista è la mano che con questo o quel tasto porta l’anima a vibrare” – era biologicamente fondata. Più veniamo coinvolti dalla bellezza, più intensa sarà l’attività cerebrale in un’area specifica del nostro cervello, quella deputata all’elaborazione delle emozioni. Il suo nome scientifico è forse meno poetico, ma di fatto le corde della nostra anima si trovano nella corteccia orbito frontale mediale. Artisti come Kandinskij hanno effettivamente imparato a farle suonare, comprendendo l’organizzazione del cervello visivo con la stessa accuratezza dei neurologi.

Ogni cosa è illuminata (ma in maniera molto specifica)

Il tentativo degli scienziati di accedere al terreno privilegiato degli artisti è sempre stato accolto con un po’ di ostilità. Il compito della neuroestetica non è però di ridurre le emozioni a stimoli biologici, come sostengono i suoi critici, né fornire un’improbabile definizione scientifica di ciò che è “bello”. La bellezza rimane un criterio soggettivo, influenzato da variabili come la cultura e l’educazione, ma la scienza può essere utile per capire cos’altro succede nella nostra mente davanti a un’opera d’arte.
Tecniche come il neuroimaging permettono ai ricercatori di capire con precisione quali aree del cervello vengono coinvolte, mettendo in risalto tutti i benefici dell’educazione artistica. Ripercorrendo la storia dell’arte con lo sguardo della neuroestetica, possiamo anche renderci conto di quanto fosse prodigioso il cervello di Claude Monet, in grado di mettere su tela l’esatta sfumatura di colore acquisita dalla Cattedrale di Rouen a seconda dell’ora e delle condizioni atmosferiche.

Imparare dalla bellezza

Dalle ricerche dei neurobiologi è emerso che, mentre dipingiamo un quadro o lo osserviamo rapiti, il nostro cervello viene stimolato a costruire relazioni concettuali. La funzione dell’arte infatti è la ricerca dell’ordine nel caos delle forme e dei colori. Forme inedite – o paradossi visivi alla Magritte – impegnano più aree del lobo frontale per dar loro un’interpretazione, coinvolgendo contemporaneamente memoria, esperienza e apprendimento. Questo potrebbe spiegare come mai l’arte astratta tende ad avere un impatto emotivo più intenso di quella figurativa, o perché un colore sia in grado di evocare idee, emozioni e ricordi. Allo stesso modo, se la simmetria e l’armonia risultano piacevoli perché facili da interpretare, i quadri di Seurat o di Mondrian impegnano la stessa area del cervello che utilizziamo per ricomporre un puzzle. Correnti artistiche come il cubismo, da un punto di vista neuroestetico, sono un tentativo degli artisti di risolvere “il conflitto tra la realtà della percezione e l’unilateralità dell’immagine rappresentata da un quadro”, presente nella nostra mente. Il cervello impara a rendere conto di questa ambiguità anche attraverso l’arte, diventando così sempre più efficiente e più veloce nel portare a termine questo compito.