25/10/2017

L’epatite virale

Circa due milioni di italiani soffrono di epatite C. Pochi, però, conoscono questa malattia. Non va meglio per quanto riguarda l’epatite B: secondo dati recenti, nonostante ne siano affette oltre mezzo milione di persone, solo 25 mila sono in terapia. Colpa della mancanza di sintomi, oltre che della scarsa informazione. Cerchiamo allora di fare chiarezza, parlando anche di un’altra forma di questa malattia, anch’essa abbastanza diffusa, e cioè l’epatite A.

Di che cosa si tratta

Le epatiti sono infiammazioni del fegato in cui si verifica una distruzione, più o meno estesa, delle sue cellule.

Le forme più frequenti sono quelle virali, dovute cioè all’azione di virus che entrano nell’organismo e arrivano fino a quest’organo.

Alcune di esse possono evolvere in una forma cronica: succede quando il sistema immunitario non è in grado di rimuovere l’infezione al momento del contagio.

Le infezioni virali più diffuse sono la C e la B. La prima è causata dal virus HCV (Hepatitis C virus), mentre la seconda dal virus HBV.

Le modalità di trasmissione

Il virus HCV penetra nell’organismo esclusivamente attraverso il sangue e, proprio tramite la circolazione sanguigna, arriva al fegato, insinuandosi nelle sue cellule, dove si riproduce.

La maggior parte delle persone con epatite C ha contratto il virus in passato, quando erano diffuse pratiche a rischio, come le trasfusioni di sangue o suoi derivati infetti e l’utilizzo di materiale sanitario e di strumentazioni mediche (come siringhe) non ben sterilizzati. I nuovi casi sono quasi tutti legati allo scambio di aghi e siringhe fra tossicodipendenti e ad altre pratiche che possono comportare lo scambio di sangue infetto, come tatuaggi, piercing, manicure, pedicure, effettuati in luoghi poco puliti e con materiale non monouso.

Il virus B, invece, non è trasmesso solamente attraverso il contatto con sangue infetto, ma anche tramite il contatto con sperma e altre secrezioni genitali. Per questo, il contagio per via sessuale è piuttosto comune. In effetti, attualmente, la malattia viene diffusa soprattutto tramite rapporti sessuali a rischio. L’epatite B può essere trasmessa anche dalla mamma infetta al neonato, durante la gravidanza, il parto o l’allattamento, e attraverso l’utilizzo di strumenti pungenti non sterilizzati, come piercing e attrezzi dei tatuatori.

Come si manifesta

Durante le prime fasi, il virus dell’epatite provoca sempre un’infiammazione acuta del fegato. In molti casi, essa non è associata a sintomi evidenti e, quindi, spesso passa inosservata.

Alcune persone, invece, accusano dei malesseri, anche se piuttosto vaghi, come stanchezza, dolori muscolari, vomito, febbre: si tratta di sintomi troppo poco specifici, perché si sospetti qualcosa. Oltretutto, tendono a scomparire nel giro di pochi giorni.

Solo in un numero limitato di soggetti l’epatite si manifesta con problematiche più caratteristiche, come ittero (colorazione giallastra di pelle e sclere), urine scure, feci chiare, astenia marcata, dolore al fianco destro, che può irradiarsi alla schiena.

La forma cronica raramente causa disturbi.

Le possibili complicanze

Nell’adulto con un sistema di difesa efficiente e ben funzionante, l’infezione acuta B guarisce spontaneamente in oltre il 95% dei casi.

Nei neonati e nei bambini, invece, la malattia cronicizza in oltre il 50% dei casi.

Talvolta, la forma cronica evolve progressivamente in lesioni più serie, arrivando anche a diventare cirrosi (alterazione diffusa della struttura del fegato, con comparsa di noduli e di cicatrici).

Nell’85% dei casi, l’epatite acuta si trasforma in epatite cronica, cioè una forma duratura in cui il virus persiste per più di sei mesi. Si tratta di una malattia molto subdola. Infatti, anche se la persona non si accorge di nulla, le cellule epatiche si danneggiano progressivamente.

Fra il 20 e il 40 per cento dei soggetti infetti sviluppa cirrosi epatica, associata o meno a infiammazione, che ogni anno nell’1-4% dei casi evolve in tumore del fegato.

Le cure

La forma acuta di epatite B non richiede quasi mai una cura. Le persone con infezioni croniche attive, invece, spesso vanno trattate. La terapia migliore è quella farmacologica, con l’interferone alfa, una molecola in grado di stimolare le difese dell’organismo contro la malattia, di ridurre la replicazione del virus e di eliminare le cellule infettate. Nelle persone che non possono essere trattate con questo farmaco, che non lo tollerano o che non reagiscono positivamente, vengono utilizzati gli analoghi nucleosidici o nucleotidici, in grado di sopprimere il virus.

Per quanto riguarda l’epatite C, la forma acuta guarisce spontaneamente in pochi casi, mentre nell’80% dei casi cronicizza. Per la forma cronica esiste una cura, che ha maggiori chance di successo se la persona è giovane e se il virus ha avuto poco tempo per danneggiare il fegato. Il trattamento attuale si basa sull’impiego in associazione dell’interferone peghilato, che è in grado di controllare il virus e di stimolare il sistema immunitario, e della ribavarina, una molecola che ha la capacità di inibire la replicazione del virus.

I vaccini

L’arma migliore per prevenire l’epatite B è costituita dal vaccino, disponibile in forma monovalente, bivalente (antiepatite A+B) ed esavalente. Tutti vanno somministrati in tre dosi: al 3°, al 5° e all’11° mese.

Nel neonato che nasce da madre infetta, bisogna somministrate una prima dose entro 12 ore dalla nascita e una seconda a un mese di distanza dalla prima. Le dosi successive, in genere, vengono somministrate con il vaccino esavalente, seguendo il normale calendario.

Le regole di prevenzione

Ci sono accorgimenti semplici da adottare che possono aiutare a evitare il contagio e tenere lontana l’infezione.

Contro l’epatite B-

Per ridurre il rischio di essere contagiati dal virus dell’epatite B, è importantissimo anche evitare tutti i comportamenti igienici a rischio. Per cui è importante:

 usare soltanto il proprio spazzolino da denti;

 per depilarsi usare esclusivamente lamette o rasoi usa e getta;

 evitare rapporti sessuali con persone a rischio o partner occasionali. In tali occasioni, usare il preservativo;

 non effettuare scambio di siringhe;

 non bere da bottiglie o da bicchieri già utilizzati da persone a rischio o comunque non familiari;

 non utilizzare rossetti o matite per labbra in profumeria;

 evitare, per quanto possibile, il contatto con sangue di persone a rischio o non conosciute.

Contro l’epatite C

Poiché contro l’epatite C non esiste un vaccino, per ridurre il rischio di contrarre la malattia, è bene:

 usare precauzioni durante i rapporti sessuali, soprattutto se si ha più di un partner;

 non scambiare effetti personali quali rasoi, spazzolini da denti, forbici, pettini;

 non esporre le ferite, ma coprirle con cerotti o bendaggi;

 chiedere l’uso di materiale “usa e getta” dall’estetista, dal tatuatore o dal barbiere;

 usare siringhe monouso se si fa uso di droghe/farmaci iniettabili per endovena.

C’è anche l’epatite A

Si tratta di un’altra epatite virale abbastanza diffusa, che si trasmette solitamente per via oro-fecale, soprattutto in seguito all’ingestione di molluschi crudi allevati in acque contaminate o di cibo contaminato dalla presenza del virus.

A differenza dell’epatite B e C, questo tipo di infezione non si cronicizza. Il periodo di incubazione è, in media, di un mese. In alcuni casi, la malattia si manifesta in modo talmente lieve che il malato non si accorge di nulla. In altri causa sintomi come inappetenza, febbre, nausea, dolori muscolari e ittero.

In genere, si risolve in due settimane, ma può durare anche fino a un anno (solo nel 10%), con alti e bassi.

Non esiste una cura specifica: bisogna solo attendere che la malattia faccia il suo corso. L’epatite A può essere prevenuta rispettando alcune basilari norme igieniche, soprattutto quando ci si reca all’estero, in paesi dove la malattia è endemica (come non mangiare pesce crudo se non si è certi della sua provenienza, lavare le mani prima di manipolare il cibo, non bere acqua corrente e così via), e tramite l’apposita vaccinazione.

Il vaccino consiste in un’unica dose da somministrare per via intramuscolare in persone che non hanno mai avuto contatti con il virus. Il farmaco ha effetto dopo una decina di giorni; a distanza di sei mesi o un anno va fatto un richiamo. La protezione è garantita per oltre dieci anni.