05/05/2020

Hollywood, la miniserie targata Netflix che riscrive la storia del cinema

Veronica Colella Pubblicato il 05/05/2020 Aggiornato il 17/05/2020

Sette episodi per celebrare la storia del cinema degli anni Quaranta e regalare un lieto fine a chi non l'ha avuto. I personaggi si ispirano alle star dell'epoca: Rock Hudson, Vivien Leigh, Anna May Wong

Hollywood - Netflix

Su Netflix dal 1° maggio è arrivata Hollywood, miniserie in sette episodi che celebra la storia del cinema regalando un finale felice a chi non l’ha mai avuto.

Seguendo l’esempio di Tarantino, Ryan Murphy e Ian Brennan riscrivono il passato permettendo a chi è stato sempre tenuto ai margini del sistema di brillare, rifiutando i compromessi al ribasso che la vera industria del cinema non ha del tutto superato.

Un omaggio a Rock Hudson, Vivien Leigh, Hattie McDaniel e Anna May Wong, ma anche a figure meno edificanti come l’agente e produttore Henry Willson, interpretato da un irriconoscibile Jim Parsons (ovvero Sheldon di Big Bang Theory).

Benvenuti nel mondo dei sogni

Ambientata nel secondo dopoguerra, Hollywood è la storia corale di un gruppo di artisti di belle speranze arrivati a Los Angeles per realizzare i loro sogni. Tra di loro ci sono Jack Castello (David Corenswet), aspirante attore che non riesce a emergere dalla folla di comparse e ottenere un provino; Archie Coleman (Jeremy Pope), uno sceneggiatore di talento che cerca di farsi produrre un film ispirato al suicidio di Peg Entwistle; Roy Fitzgerald (Jake Picking), un gigante dal cuore tenero che il mondo conoscerà come Rock Hudson; Claire Wood (Samara Weaving), figlia di papà che cerca di affrancarsi dai suoi esasperanti genitori; Raymond Ainsley (Darren Criss), un regista per metà filippino che accarezza il sogno di realizzare il primo film con una protagonista asiatica e infine Camille Washington (Laura Herrier), attrice nera costretta a particine da domestica svampita e semi-illetterata perché i ruoli principali sono riservati alle bianche.

La tempesta perfetta

Le loro storie si intrecciano grazie a una serie di coincidenze che gravitano attorno a party esclusivi in cui i giovani attori possono ottenere l’attenzione di chi conta, nonché alla provvidenziale presenza di Ernie West (Dylan McDermott), l’uomo che dietro la facciata di una tranquilla pompa di benzina fornisce compagnia a ricche signore trascurate dai mariti e omosessuali non dichiarati. Per fare strada infatti è necessario intrattenere le relazioni giuste, un punto su cui Hollywood non sorvola: attraverso Ernie, Jack incontra Avis Amberg (Patti LuPone), diva del muto che con l’avvento del sonoro è diventata “troppo etnica” per un ruolo da protagonista e ha preferito ripiegare su un matrimonio di convenienza con il proprietario degli studios, Ace Amberg. Grazie ad Avis, nonché al produttore (e rara brava persona) Dick Samuels (Joe Mantello), Raymond otterrà il permesso di trasformare la sceneggiatura di Archie in un film che si fa beffe di tutte le convenzioni dell’establishment con almeno cinquant’anni di anticipo.

La storia dimenticata

Le regole implicite che dominavano la Hollywood degli anni ’40 si sono dimostrate incredibilmente longeve e non è poi così scontato domandarsi cosa sarebbe successo se l’onda del cambiamento fosse arrivata molto prima. La tesi di Murphy è che il cinema non dovrebbe limitarsi a raccontare il mondo ma a immaginarne uno migliore, dimostrando che adeguarsi a regole ingiuste non è l’unica via da percorrere né la più sicura. Uno dei punti di forza di Hollywood è proprio l’ambizione di raddrizzare i torti del passato mescolando realtà e finzione. I giovani protagonisti, a esclusione di Roy, non sono mai esistiti, così come Dick o Avis. Sono vere invece le storie di Hattie McDaniel e Anna May Wong, attrici di talento relegate a ruoli stereotipati, o di Henry Willson, per cui Murphy ha inventato un epilogo diverso. Strano ma vero, è reale anche Ernie West: il memoir di Scotty Bowers, gigolò delle superstar, è stata una delle fonti di ispirazione principali per la serie.